Misteri archeologici e leggende di Bedonia (Parma)

di Stefano Panizza

Prato di Bedonia – Monte Pelpi, autunno 1954
Durante alcuni lavori agricoli, il contadino Luigi Ravaglia ritrova una statuetta antropomorfa in steatite, alta poco più di dieci centimetri, ora conservata al Museo Archeologico del Seminario Vescovile, grazie ad una donazione privata.
Proviamo ad osservarla nella sua allocazione, grazie ad un sapiente gioco di specchi che permette di cogliere ogni suo particolare. Si presenta in forma cilindrica ed arrotondata. Il volto ha una forma ovale, con evidenziati il naso e gli occhi. L’espressione è indubbiamente maschile, confermata dalla forma fallica dell’artefatto.

Già… un uomo… in realtà, se si scende con lo sguardo ad osservare la parte mediana ed inferiore del corpo, cominciano a sorgere dei dubbi. Perché i seni sono evidenti ed il ventre è rotondo, come se si trattasse di una donna gravida.
Quindi, è un uomo o una donna?
Forse si tratta di una femmina con una maschera da maschio o forse l’ignoto artista ha voluto creare una figura non reale, ma esoterica e simbolica.
Si tratta comunque di un “unicum” nel quadro delle raffigurazioni cultuali della preistoria.
Ma non è l’unico mistero del museo.
Monte Ribone, un certo giorno del 1973.
Viene ritrovata una grande pietra di arenaria con incisi dei caratteri che non si è mai riusciti a decifrare. La sua forma ricorda un parallelepipedo, lungo poco meno di un metro. Che si tratti di un cippo funerario del IV secolo a.C.? Sicuramente non serviva per reggere delle offerte, visto che è privo di qualunque incasso in cui depositarle.
In ogni caso, la cosa interessante sono i segni che mostra e che suggeriscono una forma di iscrizione. Purtroppo l’irregolarità della superficie ed il cattivo stato di conservazione del testo, causa la prolungata esposizione agli agenti atmosferici e i solchi lasciati dalla radici della vegetazione che ricopriva la pietra, ne rendono difficoltosa la lettura.

Morale, si è sicuri di un solo segno, lo “tsade” dell’alfabeto etrusco (sembra una farfalla…) e “quasi” di altri sei.

Comunque, secondo gli studiosi, la lettura va fatta procedendo da destra verso sinistra.

Alla fine, di tutto l’insieme, parrebbe leggersi la scritta “mi sepus” a significare che il cippo è di tale signor Sepus, nome ben conosciuto in Etruria. In pratica sarebbe il cippo stesso a “parlare”, dicendo “io sono di Sepu”.
Lasciamo idealmente il Museo Archeologico e addentriamoci nella leggenda.

Parliamo di Angelinda da Drusco, la principessa di pietra, della dinastia di Ca’ de’ Re Gai.

Non si tratta di una favola per bambini ma di un racconto che ha la sua ambientazione nelle curiose forme della natura.

Allora, c’era un volta una bella principessa che possedeva un ricco tesoro. Era costituito da un cofanetto d’avorio, ricco di anelli gemmati, e da tante monete d’oro che, ogni cento anni, si mostrerebbero per concessione del diavolo, allo scopo di tentare l’anima degli ingordi mortali (non è chiaro, però, se saltano fuori solo le monete o l’intero cofanetto…).

Ritornando alla principessa, desiderava tantissimo infilarsi uno di quei bellissimi anelli. Ma non poteva, per una sorta di magico divieto. Morale, un certo giorno, non resistette alla tentazione e così venne punita, cioè trasformata in pietra.

Ma all’incantesimo c’è una scappatoia, nel senso che la ragazza tornerà “normale” quando un principe azzurro le accarezzerà la fronte (di pietra, ovviamente).

La leggenda è ambientata alle Rocche di Drusco (1051 metri di altezza), in Alta Val Ceno, sui declivi del monte Tomarlo. Queste guglie ofiolitiche emergono imponenti dai folti boschi di faggio. Si tratta di una zona frequentata nella preistoria, poi abbandonata, rioccupata nel IV secolo a.C., poi lasciata nuovamente in epoca romana e rioccupata nel periodo medievale.

Come mai questo “tira e molla”? I resti di una torre (datata al XIV secolo) segnalano la presenza di una postazione militare. D’altra parte il fatto che la zona risulti ideale per il controllo del territorio, non fa che aumentare la stranezza della situazione. Cioè, perché abbandonare un luogo di così grande utilità?