Note dal castello di Borzano ad Albinea (Reggio Emilia)
di Stefano Panizza
Svetta fiero sopra uno sperone gessoso. È il castello di Borzano, o meglio quel che ne resta (e dal sapore non propriamente antico), ben visibile solo alzando gli occhi verso il cielo. E ai suoi pedi si estende ciò che rimane dell’antico borgo medievale.
Il luogo fu abitato fin dall’epoca preistorica. Il castello, invece, risale almeno al XI secolo e fu del marchese Bonifacio di Canossa ma soprattutto dei Manfredi, famiglia di origine longobarda.
Torniamo al presente. Sono, dunque, sul sentiero che, lasciata la strada asfaltata nei pressi del torrente Lodola, risale deciso e porta alle pendici del castello, dopo venti minuti di impegnativa salita. Mi dicono che esiste anche un’altra strada, più agevole e più lunga. Ma forse anche meno suggestiva, perché la “mia” attraversa il fitto bosco e fa incontrare animali selvatici, come striduli fagiani, impauriti scoiattoli e neri serpenti.
Proviamo ad osservare ciò che rimane delle antiche case.
Innanzitutto, paiono contenute in una sorta di anfiteatro, il che suggerisce che lì un tempo, forse già in epoca romana, esistesse una cava di gesso. I muri abitativi, poi, sono in pietra di fiume, legata da collanti come la malta, e poggiano il più delle volte sulla pietra viva. Che, spesso e volentieri, è punteggiata da piccole aperture squadrate di varie dimensioni. Probabilmente servivano da appoggio per parti della struttura e, in certi casi, per dare alloggio a piccoli manufatti.
Curiosi sono anche quegli sbilenchi gradini di pietra che percorrono in senso longitudinale il piccolo borgo fantasma.
Infine, spunta esternamente ciò che un tempo doveva essere una cortina muraria.
Difficile andare oltre a quanto, perché l’accesso è prudentemente inibito da una siepe metallica. Non rimane, dunque, che leggere quello sgangherato pannello giallo piantato a margine del sentiero. Ricorda che gli scavi archeologici hanno portato alla luce una lucerna in bronzo, un paio di tenaglie in ferro, numerose fusaiole per la filatura, ciotole, vasellame ed altri oggetti ad uno domestico. E monete d’oro e d’argento…
Ma, per allargare la prospettiva del castello, occorre fare un ulteriore, modesto, sforzo. E, cioè, proseguire e risalire il sentiero dal quale si è giunti. Così, tenendo a sinistra la rupe su cui si erge, si arriva ad un ingresso cancellato. Purtroppo è rigorosamente chiuso, ma tra le sue maglie si intravedono strutture in pietra e mattoni, seppur non antiche (probabilmente si tratta di abitazioni rurali con tanto di stalla e fienile). Ma si coglie anche una suggestiva e bassa torretta che dà alloggio ad una campanella. Fa parte della duecentesca e piccola chiesa dedicata a san Giovanni, dietro al cui abside nel 1999 vennero ritrovate ventitré tombe ricavate nel gesso e risalenti all’VIII secolo, cioè sul finire dell’epoca longobarda.
Nel tornare sui miei passi e a sinistra del ferreo cancello, noto un curioso stemma a quadri bianchi e neri che mi era sfuggito all’arrivo. È sormontato da una frase latina che richiama la famiglia Manfredi, a sua volta cavalcata da una corona. Immagino, visto il suo buon stato di conservazione, che si tratti del rifacimento moderno del suo vecchio blasone.
E qui finisce il giro del castello, limitato, in pratica ad un arco di cerchio esterno.
Il consiglio, a questo punto, è di risalire la collina erbosa posta sul lato sud, perché fa realizzare la severa allocazione della struttura (ben nascosta fra la boscaglia).
Ma di misteri, il luogo, ne custodisce? Ne parliamo in un altro articolo, a proposito della Tana della Mussina…