Varsi (Parma), i misteri di Città d’Umbrìa

di Stefano Panizza

Mi scusi, mi da le indicazioni per l’Umbria?”, chiedo sereno ad un signore di Tosca. Noto che mi guarda strano, quasi sospettoso. “Chissà il perché… in fondo mica gli ho chiesto dei soldi…”, mi viene da pensare.

Beh… siamo un po’ lontani… deve passare gli Appennini…”. La faccio corta. Tutto nasce dalla pronuncia errata del luogo, perché si dice Umbrìa, con l’accento sulla “i”, quindi non c’entra nulla con la piccola regione a fianco della Toscana.

Prenda per il monte Barigazzo, se sale a piedi dopo circa trentacinque minuti troverà le indicazioni sulla sua destra. Ancora poco e sarà arrivato”.

Ed è con questa “spada di Damocle” sopra alla testa che mi incammino lungo un ampio sentiero sterrato che attraversa il fitto bosco. 

E così, dopo una camminata in costante salita, mi ritrovo accanto ad un piccolo lago alimentato da una sorgente sotterranea, a quasi mille metri di quota. Ad osservarlo bene, si noterà la curiosa forma a triangolo scaleno, con due dei lati che paiono piuttosto dritti per essere naturali.

Vista la scarsa profondità, in periodi di siccità (di cui esiste una testimonianza del 1761) o di svuotamento volontario da parte dell’Uomo, potrebbe essere stato coltivato e, come tale, essergli state raddirizzate le rive.

Alle sue spalle ed in posizione sopraelevata di una trentina di  metri, si mostrano i pochi resti di una cinta muraria, edificata con le pietre delle alture vicine.

 

Prima ancora di capire di che cosa si tratti, si presenta il “mistero” dell’altitudine. Cioè, la struttura è, centimetro più, centimetro meno, a 1000 metri di altezza. Ora, un testo di alcune decine di anni fa che parla del sito, fissa la quota a 1117. Come mai? Si tratta di un banale errore di misurazione?

Parliamo, invece, del “cosa siano” i ruderi del complesso.

E partiamo dall’ipotesi “antica”.

Secondo questa, il sito sarebbe stato costruito nel II secolo a.C., come postazione militare. Non si tratta, però, di una struttura romana perché i romani costruivano con miglior fattura e non in cima ad un monte. Quindi, è possibile che fosse “contro” i romani.

 

Potrebbe anche essere, ma un tempo chi era in guerra con Roma? Sicuramente i Galli. Questi, però, si mischiavano con le popolazioni locali, quindi non avevano necessità di costruire barriere difensive.

Altrettanto “nemici” erano gli Etruschi. E qui, forse, siamo sulla strada giusta. Perché c’erano famiglie che si chiamavano “umana, umruna eumria”. Da ciò, dunque, potrebbe esser nato il nome di Umbrìa. E magari gli Etruschi si erano poi fusi con le popolazioni dei Liguri che sicuramente avevano sconfinato in queste zone. A dar contro a questa ipotesi, vi è un atlante seicentesco che mostra lo Stato dei Landi (in pratica, il territorio di Bardi e dintorni). Perché, dove oggi sorgono i resti di pietra, viene indicata la “Città di Antrìa” (forse con la “i” accentata) e non di “Umbrìa”. Ed “Antria” (senza la “i” accentata) è il nome di alcuni paesi del nostro Appennino.

Le domande, allora, sono: da dove deriva questo curioso nome neppure tanto raro e perché è cambiato in epoca più recente?

E veniamo all’ipotesi “moderna”, o meglio la “bizantina”, che riconduce la costruzione al VI/VII d.C.

In pratica, i resti murari sarebbero collegabili ai camminamenti di ronda che avevano lo scopo di tener lontane le popolazioni barbare, come i Goti. O forse il castelliere era un semplice rifugio per la popolazione. C’è chi pensa, infatti, che nei pressi esistesse un villaggio. La posizione è infatti strategica per controllare le provenienze dalla pianura.

Comunque, la morale è che non vi sono certezze, se non che il sito si collegasse a “vista” con altri luoghi fortificati e sopraelevati come quello sulla Tagliata, il monte Carameto e Velleja.

A questo punto diamogli un’occhiata, partendo dalla strada asfaltata che sale verso la cima del monte Barigazzo. Ad un certo punto giriamo a destra, superando una graziosa fontana in pietra.

Il sentiero che attraversa il bosco è accompagnato da blocchi di pietra, probabilmente i resti di antiche costruzioni. Sì, perché le forme sono talmente squadrate e le pietre tante, e solo in questa zona, che diventa difficile pensare a qualcosa di naturale.

Comunque, sono chiamati i “Groppi di Città”. Ricordo che il termine “Groppo” deriva dal germanico “kruppa”, e significa “nodo intricato”. Quindi, probabilmente sta ad indicare una serie di ostacoli naturali (sostanzialmente tronchi, rami e sterpaglia) che complicano l’incedere del viandante. Comunque c’è qualcosa che non quadra, perché nella Val Ceno con il termine “groppo” si intendono “grosse rocce”, che nella zona di Umbrìa non ci sono.

Ad ogni modo, l’ipotesi è che un villaggio si estendesse fra la fontana e la “Città d’Umbrìa” vera e propria, e che quest’ultima ne costituisse il rifugio per la popolazione in caso di pericolo, come già accennato.

Però è curioso che non siano mai state ritrovate delle tombe. Cioè, i morti dove venivano seppelliti? A dire il vero qualche osso è saltato fuori durante gli scavi del 1950, ma si tratta di poca roba. Forse i morti venivano inceneriti, anziché inumati. Ipotizzando, invece, che venissero conservati, si tratta di capire dove fosse il cimitero. Questo non poteva essere troppo lontano dal centro abitato, per ragioni di praticità (cioè, culto e difesa). Forse si trovava di fianco al lago, ben visibile dalla collina del castelliere, ma non ci sono prove al riguardo.

Lasciato il laghetto (di cui abbiamo già parlato), saliamo tenendo la destra. Osserviamo il lato sinistro del sentiero. In una letteratura piuttosto datata, si scrive che, su dei massi che accompagnano lo stradello, si dovrebbe notare la presenza di numerose “coppelle”. Che si tratti di una “carta stellare”? O piuttosto servivano a raccogliere il sangue delle vittime sacrificali? O magari venivano riempiti di liquido infiammabile per creare degli asterismi infuocati a scopi magici e religiosi? Mistero…

A dire il vero, il reale mistero è che non sono mai riuscito a vederle, pur essendoci andato numerose volte. E sì che le ho fatte passare una per una, ma… niente. A questo punto, i casi sono due: o semplicemente mi sfuggono, oppure le pur pesanti pietre sono sparite. Anche se, osservando quelle presenti così ricche di fossette, crepe geometriche e scalanature, il dubbio che siano stati scambiati per artefatti umani quelli che potrebbe essere un semplice lavorio della natura, rimane.  

Entrando nella struttura, fa bella mostra una pianta alta e dal grosso tronco, che ombreggia un ampio spazio sterrato.

Le pietre sono affastellate in cumuli dalla forma più o meno allungata. Sono quanto rimane dell’antico perimetro. Seguendole, si intuisce lo sviluppo e quindi la forma della struttura. In pratica, è una specie di storto quadrilatero, con i lati che variano dai venti a quaranta metri. 

Purtroppo non rimane molto. Nell’Ottocento le mura raggiungevano il metro e mezzo di altezza, ora sono ridotte ad alcune decine di centimetri e sono soffocate dalla vegetazione. Questo perché le pietre sono state usate come materiale da costruzione.

 

Ho letto di cocci di ceramica conservati nei sotterranei del Museo Archeologico di Parma, di armi di pietra e bronzo (che non si sa che fine abbiano fatto) e di una lastra di pietra (forse istoriata) conservata nella chiesa di Tosca.

 

Pare che fosse stata ritrovata anche una grandissima anfora di terra cotta, poi dai contadini spaccata a colpi di piccone per poterla estrarre. Un catino di rame, invece, era stato usato per dar da mangiare alle galline e poi buttato, una volta diventato un “colabrodo” a forza di subire le beccate dei pennuti.

Ma il luogo racconta anche di leggende…

L’avventuriero tedesco-americano Alexander Wolf avrebbe ritrovato un tesoro duranti i suoi scavi di metà Ottocento, portandoselo via durante la notte (alla faccia dei tanti, locali compresi, che ogni tanto venivano a curiosare se ci fosse qualcosa di prezioso).Va detto che della storia del tesoro la gente favoleggiava da tempo e questo, in un certo senso, giustifica l’idea di un antico nucleo abitativo di una certa importanza. Una conferma indiretta me la da un signore di Tosca. “So che un giorno venne ritrovato un campanello d’oro ed un tavolo che riportava la scritta <Umbrìa>. E poi, negli anni Ottanta, un busto di statua. Pensa che venne lasciato sul posto poco dopo la scoperta perché ormai era sera. L’idea era di tornare il giorno dopo, con il favore della luce, per recuperarlo. Sì, tornarono… ma era sparito…”.

Riparlando di Wolf, i suoi lavori iniziarono nel 1861, senza trovare nella popolazione, forse invidiosa, la collaborazione che sperava. Per tre mesi buttò all’aria della terra, prima di arrivare alle base delle mura, ma soprattutto ancora più in basso. Si legge che, a seguito di mirate percussioni sul terreno, avrebbe rilevato dei vuoti sottostanti, come ad indicare la presenza di stanze. Però è difficile capire dove finisca la “storia” ed inizi il “si dice”.

 

Ma ad Umbrìa è collegata anche la vicenda della mandragola e del suo “portar male”. Questa idea potrebbe nascere dal fatto che le sue radici assomigliano ad una forma umana, con tanto di testa, braccia e gambe. E che quindi patisca, come se fosse una persona vera, nel momento in cui si tagliano le sue radici (“per paga” si vendicherebbe producendo un veleno mortifero e scatenando temporali violenti, grandine e terremoti.).

Comunque sia, la tradizione ha rivestito la pianta di valenze sostanzialmente negative, tanto da essere un ingrediente nei riti di magia nera e, più in generale, citata nei manuali di stregoneria.

Ma la storia più curiosa è quella che vuole la mandragola nascere dal seme umano perso dagli impiccati mentre penzolano dalla forca…

Tornando alla cronaca, successe un giorno che tre malcapitati, anzi “tre parmigiani”, probabilmente a caccia del tesoro, strapparono le radici della pianta.

Sparsasi la voce in giro, vennero inseguiti da villici armati di forconi (ma riuscirono a cavarsela… per un pelo). Una superstizione? Forse no… perché un signore di Tosca mi raccontò una storia curiosa. “Un contadino del posto aveva deciso di accompagnare delle persone che volevano visitare il sito. In fondo, pagavano bene. Fatto sta che si lasciò prendere la mano, forse anche per raggranellare qualche soldo in più. E così fece anche qualche scavo… magari voleva far emozionare i suoi ospiti… sì, però, quando torno alla sua stalla due mucche erano morte e nessuno riuscì a capire di che cosa…”.

A questo punto, che conclusioni si possono trarre?

Che sul “castelliere” (o presunto tale) di certezze ve ne sono poche. Cioè,  era davvero un sito fortificato? Chi l’ha costruito e quando? Custodiva un tesoro?

Purtroppo il sito è privo di qualunque protezione, quindi aperto a qualunque vandalismo o evento atmosferico.

Si pensi che le antiche pietre vengono oggi usate per il barbecue…